Ho intercettato Paolo Menon in occasione di una sua recente Mostra di scultura dal titolo «L’Uomo, da Dioniso a Cristo», terza di un percorso artistico-espositivo, ospitata recentemente alla Quadreria di Malgrate e presso la basilica di San Nicolò a Lecco. L’ho poi conosciuto come collezionista di «vini etichettati dai più grandi artisti internazionali», ossia vino contenuto in bottiglie siglate, e insieme come autore di volumi sull’argomento, e ancora attraverso l’altro suo segno: quello editoriale. Gli ho dunque proposto un’intervista, da fare nel luogo dove vive e lavora.
Ho pensato più volte a come presentare Paolo Menon in questa introduzione, ma ho poi deciso che sarà la sua intervista, sarà Menon stesso a dispiegarsi, anche se mi hanno insegnato a distinguere ciò che un artista dice di sé e ciò che trasale dalla sua opera, e a non fare la fatidica domanda, forse retorica, che l’intervistatore pone di solito agli autori: “Quanto c’è di autobiografico?”.
Ma tant’è, questa non vuole essere una recensione, un approccio critico all’opera di Paolo Menon, quanto il racconto di una conoscenza, per quanto si possa intendere di una persona attraverso un’intervista; certo è una forma di contatto, di relazione tra soggetti che intendono parlarsi, e condividere con altri la discussione in atto. La mia parte, se così la vogliamo chiamare, sta nella formulazione delle domande, impegnative, come le ha definite lo stesso Menon, e la scelta di un taglio inconsueto, il vino, che per me ha pure un’aura e una valenza profonda, un sotto-sovra traccia che attraversa, irrora, e profuma.
E poi mi sono sempre domandata come l’arte si intrida di vita e viceversa, come la materia e il corpo delle cose siano esse stesse sostanza dell’immateriale, come la complessità e la contraddizione siano conflitto e insieme tensione verso qualcosa che, sembra un ossimoro, per sorte o per fortuna: non è mai finitezza.
Dunque, che Paolo Menon si disveli, e che il lettore rintracci ciò che è esplicitato oppure celato. E rimanderò alla biografia e ai dati che Menon stesso ha preparato per il suo sito, giacché non voglio «interpretare», ma semplicemente presentare una narrazione auto-ritratto, con profumo di caffè e di nocino fatto «in casa». Pertanto, sempre in relazione all’essenza e all’effluvio, ho pensato quanto «il Vino» fosse in Menon elemento nodale. Intorno e dentro questa «sostanza» ho deciso si sarebbe prodotta la nostra conversazione.
L’ho definita persona poliedrica. Chi è, secondo sé stesso, Paolo Menon?
«Penso di essere una persona semplice e complessa al tempo stesso che vive la sua vita in una costante progettualità non priva di contraddizioni. Complesso e costantemente progettuale è d’altronde il mondo della comunicazione in cui sono cresciuto perché mi ha insegnato a esprimere la bellezza delle cose, la complessità della natura e l’eleganza intellettuale dell’uomo mediante il linguaggio grafico della parola e dell’immagine. Lei dice: poliedrico? Forse, se considera che da una decina d’anni prediligo la tridimensionalità scultorea di progetti e lavori che mi stanno particolarmente a cuore. Privilegio la scultura – dicevo – che non è slegata, come qualcuno provocatoriamente sostiene, da ciò che graficamente e giornalisticamente ho sempre realizzato. Ecco, queste sono le tre peculiarità che strutturano in un certo senso la «poliedricità» del mio essere e del mio agire istintuale e consapevole nell’esprimerla. Mi rendo conto di avere ricevuto dalla vita più di un talento e non mi ha mai sfiorato l’idea di sotterrarli, per timore di perderli, – parafrasando il Vangelo di Luca – semmai di metterli a frutto, seguendo le stagioni della vita.
Il vino assume centralità nella sua opera, a mio parere con valenza fisica-sensoriale, intellettuale, filosofica e quasi d’iniziazione spirituale-mistica, come nella poesia di Omar Khayyam che le ho citato».
Che cos’è il vino per lei?
«Le mie radici sono venete. Affondano nel Polesine per l’esattezza, in una campagna che ha incardinato la mia giovinezza, ma non il mio futuro. Non fu facile infatti stipare nella valigia i primi diciassette anni della mia vita per raggiungere in fretta e furia Milano – la ditta di mobili di mio padre chiuse i battenti a causa di un grave dissesto finanziario – perché potessi individuare nella città del boom economico un lavoro che contemporaneamente mi permettesse di proseguire gli studi. La speranza era il mio viatico, soprattutto nei momenti più dolorosi dell’adolescenza quando ti senti sradicare dalla terra dove sei nato: sobria e fertile, umida e bronzea come poteva essere in autunno la pianura padana o d’inverno quando le viti allineate e nere trapuntano per incanto il manto nevoso.
Queste e altre esperienze formative come quelle dei miei studi di grafica compiuti a Milano nei primi anni Settanta, hanno contribuito a maturare in me la consapevolezza di voler esprimere il mio lavoro con il segno. Sì, proprio con il segno nero sui fogli bianchi; bianchi come neve tratteggiata dalle viti della mia campagna.
Pensi che a quattro anni non ancora compiuti, mio nonno paterno – appassionato coltivatore di frutta e vinificatore di famiglia – mi prendeva per mano di buon mattino nell’afosa calura estiva per percorrere insieme a piedi nudi il ciglio dei fossati che delimitavano i suoi poderi con l’intento di giocherellare sull’erba bagnata di rugiada lungo i filari delle viti, controllando di tanto in tanto i grappoli dell’uva «Clintòn» e Merlot. Così sino alla vendemmia. E quando con i parenti e gli amici del nonno pigiavamo l’uva con i piedi era una festa di colori e profumi! Ricordo che i miei piedi rossi e scuri profumavano d’uva. Il profumo era intenso. Il succo dell’uva dolcissimo, più del latte col miele e biscotti del mattino. Era una festa anche quando mia madre usava il sapone e la candeggina per togliere il colore bluastro delle bucce lasciato sui piedi dal «Clintòn», se non altro perché quei gesti mi provocavano il solletico e – raccontava mia madre – risate sino a piangere! Era una festa anche quando a tavola il nonno mi allungava il cucchiaino da caffè ricolmo di vino – tanti cucchiaini quanti erano i miei anni! – perché lo assaggiassi e imparassi a distinguere il «Clintòn» dal Merlot. E così avveniva ogni volta che si pranzava insieme. Insomma, oggi posso dire che qualche goccia di vino scorresse davvero, anche se prematuramente, nelle mie vene… Da qui la centralità enoico-filosofica si è resa protagonista della mia vita culturale.
Ancora oggi attingo dalla letteratura greca antica il mito dionisiaco sezionandolo e ricomponendolo a piacer mio negli innumerevoli cassetti dei miei progetti editoriali e artistici. Mi ispirano pure i numerosi episodi biblici ed evangelici legati alla vite, ai tralci e al vino, senza trascurare la liturgia dei riti cristiani e quella più antica del dio pagano della vite. Ma tutto ciò zoppicherebbe se non convogliassi nel vortice dei miei progetti soprattutto i grandi poeti antichi – da Euripide a Nonno di Panopoli per intenderci, includendo certamente le raffinatezze letterarie di Omar Khayyam che lei ha citato – ai quali, da viandante curioso quale sono, mi avvicino per percorrere qualche tratto di strada insieme, e ascoltare i loro canti che celebrano il vino e la vite. Inebriandomi di emozioni».
Cerchiamo ora di sezionare, decodificare le sue particolarità, considerandone comunque l’origine complessa. Menon e la Scultura, e il richiamo bacchico, e il titolo dell’ultima Mostra: “L’Uomo, da Dioniso a Cristo”. Come si genera e sviluppa questo tema, e come l’ha tradotto in materia?
«La scultura mi permette di rispolverare la letteratura antica legata alla mitologia dionisiaca – una mia passione – interpretandola. Quasi tutti i miei lavori s’ispirano in fondo a «Le Dionisiache», un affascinante poema epico di un grande poeta egiziano di lingua greca e poco conosciuto: Nonno di Panopoli, nato nel V secolo dopo Cristo ad Alessandria d’Egitto, convertito poi al cristianesimo e divenuto vescovo. Altri lavori s’ispirano ai vangeli di Gesù, Uomo-Dio, cui devo il mio credo e la mia vita interiore.
Detto questo, come avrei potuto non contrapporre artisticamente due personaggi così assoluti, l’uno mitologico e l’altro storico come Dioniso e Cristo? Come avrei potuto non trattare il tema enoico dal mio punto di vista laico, contrapponendo l’invenzione pagana del vino inscindibilmente legato all’eros e alla sopravvivenza dell’uomo, con la sacralità della bevanda dionisiaca transustanziata nel sangue di Cristo, sangue che redime donando al credente la risurrezione della carne e la vita eterna? Come avrei potuto, nella mia ricerca del divino, non far confluire il mio bagaglio di esperienze grafiche e giornalistiche acquisite in decenni di lavoro nel laboratorio di scultura che da sempre ho immaginato essere la fucina dei miei progetti futuri per darmi concrete risposte su “L’Uomo, da Dioniso a Cristo”, per l’appunto?
Lei mi chiede poi con quali materiali realizzo le mie sculture? Direi con le argille eterogenee e il legno, il bronzo e assemblaggi di materiali compositi e patina bronzea. Realizzerei tutto in bronzo se potessi, ma la crisi economica che ci attanaglia non me lo consente, né i potenziali clienti ovviamente me lo chiederebbero… Spero che la ripresa ci ridia speranza. Nel frattempo lavoro con le terre che più corrispondono al concetto plastico del mio modo di operare, alle mie esigenze stilistiche che spaziano dalle terre algide della porcellana e alla robustezza terragna del grès».
Lei ha collezionato quattrocento bottiglie di vino siglate da artisti. Qual è l’avvio e la continuità di questa propensione, e quale il rapporto tra sostanza-essenza e forma che lo contiene?
«Dicevo prima che il mio rapporto letterario con il mito bacchico è piuttosto stretto perché da sempre mi seduce. Il caso ha voluto che quando dirigevo artisticamente il settimanale “Amica”, nei primi anni Ottanta, un amico mi regalasse per le festività natalizie una bottiglia di vino particolare: il «Libecchio» bianco di Sicilia proveniente dalle cantine del Barone di Turolifi con una stupenda etichetta firmata da Renato Guttuso. Fu un’emozione e al tempo stesso la scoperta di un tesoro culturale che volli raccontare dopo vent’anni di collezionismo in due volumi antologici dal titolo: «Per vino e per segno. Le più belle etichette d’autore vestono il vino italiano» per i tipi del Centro Diffusione Arte di Milano. Oggi esaurito.
La prima bottiglia con un’etichetta artistica che decisi di collezionare fu proprio l’Efebo di Selinunte disegnato dal grande maestro siciliano che aveva tratto ispirazione dal ritrovamento archeologico emerso dalla terra dell’antica cittadina siciliana nel 1882, se non erro. A questa aggiunsi negli anni decine e decine di altre bottiglie che mi comunicavano un originale segno artistico, un’emozione e che fossero in grado di raccontarmi la personalità del vino, del territorio e dunque di un popolo radicato alle proprie tradizioni. Sino a diventare un’interessante collezione d’arte alternativa».
Un altro aspetto saliente, più conflittuale, è la relazione con la parola scritta, spesso associata a un notevole segno grafico di cui mi ha raccontato la storia. Vuole dispiegare quella che potremmo chiamare la sua «anima editoriale»?
«Il mio rapporto professionale con la parola scritta non confligge con quella grafica e le due non configgono con quella scultorea. Anzi, tutte e tre le tecniche mi permettono di comunicare tra di esse con modalità diverse, in tempi diversi, in condizioni diverse. L’importante è che quando si lavora in una redazione con incarichi specifici, diciamo determinanti per il buon andamento della macchina redazionale, altri professionisti non interferiscano sterilmente sulla creatività altrui. Come inspiegabilmente è accaduto nel mio recente passato di art director o di direttore di testata e come accade purtroppo ancora quotidianamente nel settore grafico-editoriale. Interferenze e suggerimenti non richiesti, ovviamente, che provengono dalle strutture verticistiche redazionali di cui spesso la mediocrità subisce il fascino indiscreto delle strategie di marketing omogeneizzanti. Interferenze che provengono da direttori caccasotto o peggio da nefasti editori che bramano esercitare il loro edonismo piuttosto che preoccuparsi di coltivare contenuti e contemporaneità elegante sulle pagine dei loro periodici…
Lei vorrebbe che citassi degli esempi che non voglio pubblicizzare per pudore? Penso sia sufficiente restringere il campo sulle conflittualità creative in ambiente redazionale che rappresentano purtroppo un problema irrisolto, una ferita aperta».
Sempre con riferimento alle partizioni che rimandano all’intero, come è stata, come è, come vorrà essere l’opera di Paolo Menon?
«Elegante e significativa, didattica per i contenuti e chiara. Penso che un’opera, o meglio l’operato di un artista debba raggiungere il cuore del suo pubblico con originalità, vocazione e possibilmente con classe».
RASSEGNA STAMPA
Testo di Rosanna Ratti pubblicato il 9 novembre 2012 su HubCulture.it .
