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INCONTRO CON LA POESIA DI PAOLO MENON

Questa intervista nasce in seno alla rubrica «Lentissima intorno e folgorante» di Adriana Gloria Marigo, del web-magazine readactionmagazine.it. Con le interviste intendiamo dedicare attenzione alle pubblicazioni letterarie, di preferenza sillogi di poesia con l’intento di far conoscere i recenti libri editi e gli autori. Incontriamo il poeta Paolo Menon che ci parla della sua poesia cogliendo l’occasione della pubblicazione del suo ultimo libro ‘Nel mio sguardo cercami’ per Simonelli editore.

 

[ Prima parte, 4 aprile 2021 ]

Caro Paolo, intanto vorrei chiederti come hai scoperto la passione per la scrittura, in particolare per la poesia? Come hai coltivato quest’ultima?

 

«Nasce ai tempi del ginnasio con l’intento di esercitarmi a sintetizzare, o meglio, ad arginare l’esondante affabulazione di mia madre. Mia madre — debbo chiederti di pazientare se evoco il suo ricordo che sottende la risposta — non taceva mai, anche quando delegava i suoi monologhi al sorriso che col tempo avevo imparato ad ‘ascoltare’.

Nel quotidiano, mia madre era una donna di complicata semplicità, ma anche lettrice assidua di periodici e racconti, affascinata dalla teatralità dell’operetta di Mascagni, per citartene una. Così come dalle arie famose di Puccini, Verdi, Donizetti e da cantanti lirici come Corelli, Callas, Del Monaco e, non da ultimo, dai versi di Carducci e Pascoli, in particolare da La pioggia nel pineto di D’Annunzio, di reminiscenza scolastica. Insomma, mia madre era un fagotto di passioni da cui non si separava mai, passioni che riverberava sulla mia formazione extra scolastica e sul mio senso estetico. Le sue storie, trapuntate di ispirata aneddotica — credimi — avrebbero potuto trovare ospitalità persino tra le pagine di Pinocchio, se ciò fosse stato in suo potere.

Su questo chroma key, come direbbero oggi i registi, dove ho proiettato alcuni flashback adolescenziali, aggiungo anche quello di essermi lasciato permeare, negli anni Sessanta, dalla magnificenza della poesia antica e, solo successivamente, dalla modernità di Montale e Quasimodo, Ungaretti e Neruda, quattro nomi su tutti, con una predilezione per la cifra stilistica del poliedrico Jacques Prévert, tanto da subirne fascinazione e ascendenza sui miei primi rudimenti di poesia. D’altro canto non potevo pretendere allora di capire come, quanto e perché altri poeti contemporanei insistessero nel cesellare rime baciate e ingabbiate negli endecasillabi, piuttosto che dare libertà e ironia, musicalità e ritmo al verso: un problema che andava risolto, pensavo, ma di cui non farmi carico a quattordici anni.

A sedici scrivevo poesie: intuivo le potenzialità connaturate per la scrittura, evidenziata per di più dal fatto che ogni problematica irrisolta — prerogativa di ogni adolescente che si rispettasse — la riversassi puntualmente sui quaderni già zeppi di aneddotica e storielle di mia madre che avevo raccolto non per farne un diario — genere di scrittura avulso dalle mie preferenze —, ma per redigere il «mio» primo libro da proporre «finalmente» a un editore. Ambiziosetto il ragazzo, che ne dici?

Due anno dopo, diciottenne nel 1969, la mia prima poesia fu selezionata e pubblicata nella prima antologia poetica: Orizzonti Junior, curata dalla casa editrice Nuovi Orizzonti di Milano. E fu il mio passaporto intimo per il mondo editoriale della Poesia».

 

Quali sono gli autori italiani o stranieri che hanno avuto un ascendente sulla tua scrittura o che avverti prossimi al tuo modo di vedere la vita, l’arte? C’è un poeta che consideri tuo mentore?

 

«Nessun mentore. Pochi poeti si sono lasciati leggere e rileggere da me con profondo interesse per quella sorta di “imprinting autorevole” — come direbbero certi biografi americani — che i grandi autori sanno trasmettere ai propri allievi; tra questi potrei citarti Attilio Bertolucci o Dino Campana, o Giorgio Caproni o — spero non ti stupisca — l’immensa Margherita Guidacci, o il Signor B.B., il tedesco Bertolt Brecht, o gli americani Lawrence Ferlinghetti, mitico! e la sconvolgente Sylvia Plath. Non saprei dirti però quale fra tutti abbia avuto il peso più rilevante nella mia vita, oltre a un ascendente nella mia scrittura.

Parallelamente, tra gli artisti che avvertivo prossimi al mio modus operandi, al primo posto del mio personalissimo podio c’era Piero Manzoni per la sua visione concettuale, rivoluzionaria e poetica della materia; sul secondo gradino l’italo-argentino Lucio Fontana e, sul terzo, pur dovendo collocarli agli antipodi, ma a pari merito, due maestri di cui avrei frequentato ad ogni costo le rispettive botteghe se fossi nato qualche decennio prima: Adolfo Wildt e Auguste Rodin di cui seguii comunque e in solitudine le loro orme».

 

Quale valore ha per te la poesia, in particolare oggi, che sembra orfana di maestri e, per le numerose voci, informe e frammentata?

 

«Già, «orfana di maestri, informe e frammentata»: non potevi focalizzare meglio lo status della Poesia di oggi. Potrei ordire la tua trama, Gloria, insinuando nel mio animo il dubbio se la poesia sia orfana di maestri a causa dei molti poeti che ancora non si sono affrancatati dal perbenismo ancillare, dal populismo sfacciato, gossipante e virale. Dovrei riflettere ulteriormente su questa presupposizione. Ma voglio aggiungere a margine — con un pizzico di ottimismo — che Poesia è pensiero libero nel suo significato più alto, oltre che antidoto contro egoismi e narcisismi che affliggono compulsivamente la scrittura contemporanea.

Ogni singolo afflato di libertà — ecco che riaffiora l’utopico —, ogni verso che defletta dall’asservimento al potere è per me tassello nuovo per un nuovo mosaico epocale. Il poeta necessario alla visione del mio micro-macro cosmo — ecco che affiora il distopico —, il poeta icasticamente riverberante ha fatto le valigie, purtroppo, seguendo inesorabilmente il Ventesimo secolo. Detto questo, sento di essermi fatto dei nemici! Vorrà dire che busserò alla tua porta e ti chiederò ospitalità… ».

 

Come nasce la tua ispirazione? Ci sono momenti del giorno privilegiati? Attribuisci importanza alla componente autobiografica e al rapporto con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

 

«L’ispirazione nasce dalla frequentazione di luoghi e persone, flora e fauna, di notte e ultimamente di giorno. L’ispirazione, insomma, nasce da quanto e come io mi lasci abitare dal silenzio foriero di ascolti sempre nuovi, mi lasci abitare dall’alta collina lecchese dove vivo e dai boschi del Parco del Curone che la incorniciano, mi lasci abitare dalle persone che più non frequento in presenza a causa del Covid e dai vuoti o dai pieni esistenziali che mi tendono il taccuino da riempire di note, segni, numeri, disegni o chissà che altro. E quando l’ispirazione cede, allora lavoro sugli appunti, anche a distanza di settimane, mesi, anni. Il tempo, il mio, non ha calendario ed è il bene più prezioso che oggi posseggo e che ho imparato ad amministrare senza lancette, per l’appunto.

Quanto alla componente autobiografica, che intrama e struttura il mio versificare, penso che sia inscindibile dal Dna creativo, o compositivo come dir si voglia di chi scrive; in altre parole, se la poesia è vera non può che inverare il contenuto».

 

La Poesia, l’hai vissuta attraverso il tuo lavoro di artista e poetico: ha trasformato la tua vita, e come?

 

«Poesia e bellezza, Ragione e sentimento: poli che si attraggono per concepire i contenuti di un’opera. Idem per simbiosi e sintesi: macchine potenti che si attivano ogniqualvolta l’ispirazione prevale sulla scrittura o sulla scultura. Ti confesso tuttavia, e con umiltà, che né la Poesia — per come la intendo io — né la scultura abbiano trasformato la mia vita; la mia vita è ed è sempre stata vissuta in ambito poetico sia che dirigessi artisticamente un periodico di moda o edonistico o equestre, sia che scrivessi o facessi grafica, oppure che disegnassi o scolpissi. Questo stato di ‘grazia’ — voglio chiamarlo così anche se la locuzione è impropria poiché pertiene notoriamente al sacro — mi ha arrecato incomprensioni e solitudini professionali, amarezze e profondi dispiaceri; ciononostante i riconoscimenti per il mio lavoro svolto o in progress si sono spesso rivelati più gratificanti di quanto mi aspettassi. E questo è un fatto che mi riempie ancora oggi di gioia e orgoglio».

 

Proseguiamo la nostra intervista con Paolo Menon che ci parla degli incontri artistici che più lo hanno influenzato e arricchito. In questa seconda parte, inoltre il poeta approfondisce gli aspetti della sua silloge «Nel mio sguardo cercami» e della sua lirica, cercando di delineare la funzione della poesia oggi.

 

[ Seconda parte, 5 aprile 2021 ]

In che misura gli incontri con altri autori e intellettuali hanno influito nella tua evoluzione poetica?

 

«Direi moltissimo. Da ogni incontro artistico, culturale, umano, intellettuale, ho colto semi che hanno germogliato e fruttificato sul mio terreno secondo le stagioni della vita, con risultati sorprendenti su formazione, cultura ed evoluzione poetica. Anche da questo nostro incontro ne traggo e ne trarrò beneficio, stanne certa.

Mi viene in mente quanto disse un noto psicoanalista come Massimo Recalcati in un incontro televisivo di qualche anno fa — non ricordo il titolo della trasmissione e andrò per di più a braccio —, disse che per sua esperienza la formazione culturale e l’evoluzione di un soggetto non è mai come un’autostrada, ma è fatta di incontri, di urgenze, di imprevedibilità; che la nostra responsabilità non è quella di decidere gli incontri che faremo, ma di non perdere le occasioni di quelli che facciamo. Indubbiamente. La mia vita professionale è stata infatti costellata di incontri con personaggi di spessore provenienti dal mondo della comunicazione, dell’editoria, della letteratura, della scienza, della politica, della religione, della fotografia, del design e dell’architettura internazionali. Dunque posso affermare, per esperienza, che nella vita di un artista, a prescindere dalla sua bravura e dai risultati conseguiti, sia auspicabile rapportarsi con le persone e i luoghi della Bellezza; meglio sarebbe se capitasse nel momento giusto, ma lo sapremo sempre a posteriori».

 

Sappiamo quanto la copertina e il titolo, anche per la poesia, rappresentino, in certo senso, la soglia del libro: come sono nati per il tuo libro quegli elementi così carichi di suggestione?

 

«L’argomento mi è caro, Gloria, lo sai, e sappiamo quanto la copertina di un libro sia decisamente importante per la veicolazione dello stesso poiché la copertina è il vestito indossato dai contenuti e che, con buona pace di Lapalisse che non avrebbe nulla da obiettare, la copertina sia inevitabilmente la prima cosa che il lettore vede e da cui si sentirà attratto o respinto. Marketing docet.

Premesso ciò, sono oltretutto convinto che il titolo eserciti una innegabile influenza sulla scelta del lettore tra due o più volumi dello stesso genere: titolo che darà voce alle aspettative del lettore e dell’autore, ma con la complicità e la seduzione che sappiamo essere esegetiche dell’immagine che valorizza un libro.

Nel caso specifico della mia ultima silloge, ‘Nel mio sguardo cercami’ — titolo già carico di pathos essenziale ed efficace per il richiamo biblico —, l’immagine di copertina si carica ulteriormente di valori e suggestioni, grazie al nitore del soggetto pittorico che sottolinea l’immediatezza del titolo: lo sguardo ribelle di Lucifero (l’angelo ‘portatore di luce’ caduto in disgrazia divina) contro lo stesso sguardo del suo Creatore; sguardo sostenuto magistralmente dal pennello elegante e raffinato del francese Alexandre Cabanel. La mia sensibilità grafica ha poi fatto il resto, zumando sul viso meraviglioso ed evocativo dell’angelo, il cui sguardo carico di tensione incrocerà quello del mio lettore».

 

A quale pubblico pensi sia rivolto “Nel mio sguardo cercami”?

 

«Penso a un pubblico di nicchia. Mi dirai che tutta l’editoria che pubblica Poesia è di nicchia, ma per questo i libri di poesia godono di luce propria, direi di aristocratica bellezza, se mi passi l’azzardo. Nel mio piccolo e opaco mondo contemporaneo, sono persuaso che quest’ultima silloge sia di nicchia in misura maggiore, perché si rivolge a un pubblico che dell’introspezione, dell’approfondimento, dell’etica e della metafisica ne ha fatto un nido in cui deporre l’ansia e mettere a nudo l’io per il tempo necessario a ritrovare il bandolo di una bellezza interiore dopo averla delegata a rappresentare sincretismi e fascinazioni consumistiche; un nido in cui ritrovare la comprensione delle altrui diversità emergenti in questa Epoca nuova e già segnata dalla fragilità umana che — volenti o nolenti — ci sta trasformando. Beh, il tema meriterebbe qualche approfondimento».

 

Pensi che la Poesia possa contribuire a risolvere o almeno ad attenuare la crisi attuale delle coscienze?

 

«No. Nemmeno un po’, se chi legge Poesia è una sparuta minoranza di lettori che oltretutto fatica a ritrovare sé stessa nel Verso altrui, poiché troppo si è allontanata dall’autenticità della propria matrice spirituale. Non penso che l’uomo possa, voglia, debba affrontare la crisi attuale con la consapevolezza- coscienza di risolvere i propri problemi leggendo Poesia. Chi lo fa è un viandante sui generis, un pellegrino tra i pellegrini della cultura, consapevole dei propri limiti e fragilità. Ma quanti lo sarebbero, volendo includere, da ultimo, anche me? Certamente la Poesia ha il potere di lenire la sofferenza dell’anima prigioniera di una mente non sempre allenata a risorgere nella Bellezza. Che è Vita. Ecco: la Poesia, in questo contesto, potrebbe dare il suo significativo contributo».

 

Torniamo alla tua poesia: qual è il passo della tua silloge che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché?

 

«Non saprei. Ritengo che ogni passo — riuscito o meno — sia inscindibile per l’autore. Non c’è passo che tenga, se non per difetto, nel promuovere una poesia. Una poesia necessita di completezza: come dire che dal viso o dal busto di una persona possa dedurne le fattezze del corpo, ma chi mi dice che al di sotto di quel busto non sia deformità? Detto ciò — absit iniuria verbo — penso che ogni passo sostenga, debba sostenere il ritmo narrativo, o meno, della struttura compositiva. Credo che ogni poesia, ogni mia poesia sia lacerto e pharmakon inscindibili: non saprei rinunciare ad alcuno di essi, né privilegiarne altri; ma sono pronto a ricredermi se decideremo di disquisire sull’argomento in maieutica compagnia».

 

Che cosa ti attendi da Nel mio sguardo cercami?

 

«Poco o nulla, ma mi accontenterei di sapere che negli effetti collaterali del vaccino contro la pigrizia per la lettura vi sia anche l’aumento del desiderio di riscattare la Bellezza della poesia, tra cui — magari — anche qualcuna delle mie. Ma mi limito a riportare le avvertenze di un… bugiardino».

 

Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Stai già lavorando a una nuova opera e di che tratta? Puoi rivelarci qualcosa?

 

«Sì, sto lavorando sulla quinta silloge che auspicabilmente avrà una speciale estensione antologica. Ciò per facilitare i nuovi lettori che mi scrivono — perché a me e non agli editori? — di incontrare difficoltà nel reperire altre mie raccolte in edizione cartacea. Sic! Dunque l’appuntamento sarà con ogni probabilità a ottobre, ma non lo prometto. Ed è presto per conoscere il titolo che è ancora in divenire. Comunque sia: agli dèi l’ultima parola!».

 

RASSEGNA STAMPA

Testo di Adriana Gloria Marigo (poetessa e critica letteraria) tratto dal periodico web-magazine readactionmagazine.it nei giorni 4 e 5 aprile 2021.

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